IL TRIBUNALE
    Ha emesso all'udienza del 22 gennaio 1993 la seguente ordinanza.
    Nel  corso  del  procedimento  penale  a  carico di Greco Franco -
 imputato del reato di rapina aggravata dall'avere usato come minaccia
 una siringa (arma impropria) e  dall'avere  agito  unitamente  ad  un
 complice  (non identificato), in danno di Voghera Massimiliano da cui
 si faceva consegnare una banconota da L. 50.000 - il p.m., a  seguito
 delle  risultanze  dibattimentali,  chiedeva, a norma dell'art. 518.2
 del c.p.p., di essere autorizzato alla contestazione  in  udienza  al
 medesimo Greco del reato di cui all'art. 73 del t.u. stupefacenti per
 avere ceduto a Giustiniani Carmine (il preteso complice finallora non
 identificato nel reato di rapina) meta' di una dose di eroina.
    Il  fatto  contestato  in udienza e' indubitabilmente "nuovo", nel
 senso che non e' connesso a quello di cui alla originaria imputazione
 di rapina, non risultando gli estremi di cui all'art. 12 del c.p.p.
    L'imputato, presente, ha accettato la contestazione, ed ha  quindi
 proposta  istanza  di "patteggiamento" ex art. 444 del c.p.p., cui il
 p.m. ha aderito.
    A  questo  punto  il  tribunale  ha  ordinato  la  separazione del
 procedimento originario per rapina  (sul  quale  ha  poi  pronunciato
 sentenza  assolutoria  del  Greco)  da  quello instaurato in corso di
 giudizio per il  nuovo  reato  di  cui  all'art.  73  del  d.P.R.  n.
 309/1990,  per  la  duplice  ragione  che  il  Greco  era in stato di
 detenzione per l'originaria imputazione onde urgeva decidere anche ai
 fini dello status libertatis, e  che  la  richiesta  di  applicazione
 della  pena  per il nuovo reato contestato, promossa dall'imputato ed
 alla quale il p.m. aveva prestato consenso, urtava contro il disposto
 dell'art. 446, primo e quarto comma, del c.p.p.
    E' chiara  la  rilevanza  della  questione,  in  presenza  di  una
 richiesta  di applicazione di pena da parte dell'imputato, cui presta
 consenso il p.m., formulata oltre il momento in cui e'  stato  aperto
 il  dibattimento,  nel  senso che il tribunale, dovendo respingere la
 richiesta ex art. 446 del c.p.p., si pone il quesito se tale norma e'
 conforme  a  Costituzione  nella  parte  in  cui   non   prevede   la
 possibilita'  per  le parti di formulare la richiesta di applicazione
 di pena e correlativamente di prestare il consenso in una  situazione
 quale e' quella prevista dall'art. 518.2 del c.p.p.
    In   punto   non   manifesta  infondatezza  i  profili  si  devono
 riscontrare in relazione al principio di eguaglianza di cui  all'art.
 3,  primo  comma,  al diritto alla difesa di cui all'art. 24, secondo
 comma, della Costituzione.
    Sotto il profilo del principio  di  eguaglianza  appare  di  tutta
 evidenza  che  la  legge  viene  a  trattare in maniera diseguale due
 situazioni fra loro  estremamente  simili,  ed  anzi  a  trattare  in
 maniera  piu' "punitiva" quella nella quale l'imputato, accettando la
 contestazione di un fatto nuovo di dibattimento e proponendo  istanza
 di  patteggiamento,  rende il piu' agevole possibile il compito della
 giustizia, consentendo di giungere immediatamente ad una decisione  e
 rinunciando   al   limite   al   mezzo   di  impugnazione  costituito
 dall'appello.
    Non vale, ad avviso  del  tribunale,  rilevare  che  l'alternativa
 consentita  dalla  legge  e' pur sempre quella del procedimento nelle
 forme ordinarie, cosi' che per il fatto nuovo di cui il  p.m.  chiede
 la   contestazione   in  udienza,  l'imputato  presente  (se  intende
 formulare  richiesta  a  norma  dell'art.  444   del   c.p.p.)   deve
 semplicemente esprimere il dissenso verso la contestazione immediata;
 con  la  conseguenza  del  ritorno  del  procedimento alla fase delle
 indagini preliminari e con ogni possibilita'  di  fare  richiesta  di
 applicazione   di   pena   fino   all'apertura  dell'eventuale  nuovo
 dibattimento.
    Questa era una via che il tribunale  conosceva,  ma  ha  preferito
 escluderla  di  fronte  ad  esigenze  di  economia  processuale  e di
 concentrazione del dibattimento, in  cio'  sollecitato  dallo  stesso
 disposto dell'art. 518.2.
    Invero  o  si  afferma che il tribunale deve sempre - di fronte ad
 una contestazione ex art. 518 del c.p.p. - rimettere gli atti al p.m.
 in sede  di  indagini  preliminari  per  consentire  di  ripercorrere
 l'intero  iter  processuale  nel quale e' prevista anche l'ipotesi di
 cui all'art. 444 del c.p.p.; ovvero non si puo' disconoscere che,  se
 sono  vere  le  esigenze di speditezza menzionate dall'art. 518.2 del
 c.p.p., all'imputato  (quando  accetti  la  contestazione)  non  deve
 essere  preclusa la possibilita' di avvalersi della facolta' prevista
 dall'art.  444  del c.p.p. La soluzione, quale oggi e' cristallizzata
 nelle norme  esaminate,  non  convince  punto  sotto  un  profilo  di
 ragionevolezza  e  di  garanzia  della  speditezza  processuale,  che
 costituisce uno dei cardini del nuovo processo.
    Posto che, come nel caso, si e' in presenza della contestazione di
 un fatto nuovo risultante dal dibattimento (a norma dell'art. 518 del
 c.p.p.), che il presidente del collegio ha  autorizzato  la  relativa
 contestazione  nella  medesima  udienza,  che  l'imputato ha prestato
 consenso alla contestazione a tutto vantaggio  della  speditezza  del
 procedimento,  non  si  comprende  la  ragionevolezza dell'inibire in
 questa sede (consenzienti le  parti)  il  ricorso  all'art.  444  del
 c.p.p.
    Il   tribunale   non   ignora   la   giurisprudenza   della  Corte
 costituzionale, in particolare la sentenza 8 luglio 1992, n. 316, che
 ha deciso un caso analogo, relativo alla contestazione nel corso  del
 dibattimento di un fatto concorrente
  ex art. 517 del c.p.p. e di contestuale richiesta di rito abbreviato
 da  parte  dell'imputato, sulla base del principio dell'imputet sibi,
 ossia  rilevando  che  l'imputato  ben  poteva  prevedere  la   nuova
 contestazione   "dato   lo   stretto   rapporto   intercorrente   tra
 l'imputazione originaria ed il reato connesso". Ma ha anche  presente
 che   diverso   e'   il   caso   del   rito  abbreviato  rispetto  al
 patteggiamento,  e  soprattutto   che   diversa   e'   l'ipotesi   di
 contestazione  di  reato concorrente di cui all'art. 517 del c.p.p. e
 di contestazione di fatto nuovo di cui all'art. 518 del c.p.p.
    Ragion per cui non ritiene che le due situazioni  siano  tra  loro
 assimilabili.
    Sotto  il  profilo  del diritto alla difesa il tribunale ravvisa a
 conforto  della  tesi  qui  sostenuta  argomenti  adottati  in  altro
 contesto  dlla stessa Corte costituzionale. Infatti nella sentenza 28
 dicembre 1990, n. 593 (che richiama espressamente  altri  precedenti)
 si  legge  testualmente: "l'interesse dell'imputato a beneficiare dei
 vantaggi che discendono  dall'instaurazione  di  tale  rito  speciale
 (abbreviato) in tanto rileva, in quanto egli rinunzi al dibattimento,
 accettando  di  essere  giudicato  sostanzialmente  sulla  base degli
 elementi raccolti dall'organo dell'accusa -  senza  partecipare  alla
 formazione  della  prova in contraddittorio - e di subire limiti alla
 proponibilita' dell'appello. L'interesse  dell'imputato  trova  cioe'
 tutela  solo  in quanto la sua condotta consenta l'effettiva adozione
 di una  sequenza  procedimentale  che,  evitando  il  dibattimento  e
 contraendo  le  possibilita'  di  appello,  permette  di  raggiungere
 quell'obiettivo di rapida definizione del processo che il legislatore
 ha inteso perseguire con l'introduzione del rito abbreviato e piu' in
 generale dei riti speciali". La medesima  decisione  citata  aggiunge
 che  "quando  per  l'inerzia dell'imputato tale scopo non puo' essere
 pienamente raggiunto - in quanto si e' gia' pervenuti al dibattimento
 - sarebbe del tutto irrazionale consentire che, ciononostante, a quel
 giudizio  si  addivenga  in   base   alle   contingenti   valutazioni
 dell'imputato sull'andamento del processo".
    Ora,  nel  caso in esame, ci si trova in una situzione simmetrica-
 opposta.  La  condotta  dell'imputato  che  accetta  in  udienza   la
 contestazione  del  "fatto  nuovo" viene penalizzata dalla esclusione
 del  patteggiamento,  quando  questo  permetterebbe  di   raggiungere
 quell'obiettivo di rapida definizione del processo che il legislatore
 ha  inteso  perseguire  con l'applicazione di pena su richiesta della
 parte. Ed all'opposto, se l'imputato sa che e' preclusa la via  della
 richiesta  di  applicazione  di  pena,  non  potra'  fare  altro  che
 moltiplicare i tempi del processo, preferendo che  si  proceda  anche
 per  il  fatto  nuovo con le vie ordinarie, cosi' da potere fruire in
 futuro della possibilta' di patteggiare la pena, giovandosi della sua
 procedente inerzia.
    Ne'  valgono  le  altre  considerazioni  aggiuntive  della  citata
 sentenza  della  Corte, in quanto di fronte al fatto nuovo contestato
 in udienza non si puo' argomentare che l'imputato  abbia  scelto  una
 determinata  via in base a contingenti valutazioni sull'andamento del
 processo.
    E' ovvio che l'eccezione puo' anche essere letta nel  senso  della
 illegittimita'  costituzionale  dell'art.  518,  secondo  comma,  del
 c.p.p. nella parte in cui non dispone (in  deroga  all'art.  446  del
 c.p.p.)  che  l'istanza  di  patteggiamento  puo' essere fatta valere
 nell'ipotesi in cui, autorizzata la contestazione del fatto nuovo  da
 parte del presidente, l'imputato consenta alla contestazione stessa.